Trilogia di Gormenghast

« Ogni mattino dell’anno, tra le nove e le dieci, lo si può trovare nella Sala di Pietra, dove, seduto al lungo tavolo, egli consuma la prima colazione. Il tavolo poggia su una pedana e, dal suo posto, egli può contemplare il grigio refettorio in tutta la sua lunghezza. Su entrambi i lati e lungo tutta al sala, grandi pilastri sostengono il soffitto affrescato, dove cherubini si inseguono nel deserto di un cielo scaglioso. Ci devono essere almeno un migliaio di corpiccini grassi che si incrociano tra le nuvole, agitati da un moto eternamente immobile, perché imperfettamente articolati. Le tinte, un tempo squillanti, sono spente e scrostate, il soffitto è ormai una difficile sfumatura di grigio, verde-lichene, rosa antico e argento.
Molto tempo fa, il conte Sepulcrio ha forse notato i cherubini. Forse da bambino cercò più volte di contarli, come già suo padre prima di lui e come domani, a sua volta, il giovane Tito. Il fatto è, però, che da anni ormai il conte de’ Lamenti non alzava gli occhi a quelle antiche plaghe celesti, né girava lo sguardo intorno a sé. Che senso aveva parlare di amore per questo posto? Egli ne faceva parte. Non sapeva concepire un mondo al di fuori di esso, l’idea di amare Gormenghast l’avrebbe stupefatto. Chiedergli che cosa provava per la residenza avita sarebbe stato come chiedere a un uomo di descrivere i suoi sentimenti per la propria mano o gola.»

Tito di Gormenghast – La Trilogia di Gormenghast di Mervyn Peake di Mervyn Peake

La Trilogia di Gormenghast di Mervyn Peake: l’intrico surreale, grottesco, crepuscolare, claustrofobico e stagnante della corte enigmatica di Gormenghast.

LA TRILOGIA DI GORMENGHAST
Gormenghast è una trilogia di romanzi fantasy Mervyn Peake composta da Tito di Gormenghast (1946), Gormenghast (1950) e Via da Gormenghast (1959). Sebbene posta nel genere fantasy, nella trilogia di Gormenghast non compaiono mai alcuni degli elementi che lo caratterizzano, come la magia e la presenza di razze diverse da quella umana.

VOL. 1 – TITO DI GORMENGHAST

Apriamo questo libro e ci troviamo in un mondo parallelo al nostro. È Gormenghast, un immane castello, che nessuno dei suoi abitatori ha percorso in tutti i suoi anfratti. Un tempo, doveva essere pieno di tinte squillanti: ora è un intreccio di crepe, e le tinte sfumano fra grigio, verde lichene, rosa antico e argento. Vi incontriamo esseri disparati: un nobile melanconico e saturnino, settantaseiesimo conte di Gormenghast, che è il reggitore del luogo; sua moglie, avvolta in una nube di gatti bianchi; la figlia, selvatica e sognante fra giocattoli vecchi, libri e pezze di stoffa; dignitari di cartapecora, dalle gambe di ragno, custodi di un ordine ormai inaridito; orripilanti figuri che sovraintendono alle cucine; giovani acrimoniosi, che covano la rivolta. Ma c’è qualcosa che unisce questi personaggi: il loro corpo e la loro psiche sono una concrezione del castello – così come il castello è una concrezione del loro essere. Nessuna vita è per loro concepibile al di fuori di quei corridoi di pietra, di quei saloni, di quelle torri, di quei solai. La natura non esiste, se non come riflesso del castello, dove la polvere è polline: perché Gormenghast è tutto. La nascita di un erede maschio, Tito di Gormenghast, «rampollo della stirpe delle pietre, acqua del fiume senza fine», porterà una minaccia di cambiamento, per il solo fatto di essere qualcosa di nuovo. E qui ha inizio la trascinante saga narrata da Peake, un’impresa grandiosa della letteratura fantastica – e insieme un vasto disegno allegorico che traspare dietro l’esuberanza delle immagini. “Tito di Gormenghast” fu pubblicato nel 1946, primo volume di una trilogia che sarebbe stata compiuta nel 1959. Il libro trovò, fin dall’inizio, lettori entusiasti, ma – un po’ come accadde a Tolkien – per molti anni essi rimasero una piccola cerchia. La morte di Peake, nel 1968, coincise invece con l’inizio di una grande voga fra lettori di ogni specie. Accolta fra i «classici moderni» della Penguin, la trilogia di Peake è ormai un’opera amata in tutto il mondo. Come scrisse C.S. Lewis, «Peake ha creato una nuova categoria, il Gormenghastly, e già ci meravigliamo di come prima potessimo vivere senza di essa e ci chiediamo come mai nessuno aveva saputo definirla prima di lui».

VOL. 2 – GORMENGHAST

Soverchiato dalla cima ad artiglio e dalle giogaie scoscese dell’omonimo monte, il reame di Gormenghast ha il suo centro in un immane agglomerato tirannico con le sembianze di un castello. Qui ogni antica bellezza si è corrotta in cupa fatiscenza: le mura sono sinistre «come banchine di moli», e le costruzioni si tengono tra loro «come carcasse di navi sfasciate». E qui, intorno al piccolo Tito – divenuto il settantasettesimo conte dopo la misteriosa morte di Sepulcrio –, si muovono gli esseri inconcepibili che sono la sostanza stessa di cui è composto il castello: la gigantesca contessa Gertrude, la madre, dalle spalle affollate di uccelli e dallo spumoso strascico di gatti bianchi; l’amata sorella Fucsia dai capelli corvini, che col suo abito cremisi infiamma i corridoi grigi; il fanatico custode delle leggi, Barbacane, nano storpio che raggela il sangue col secco schiocco della sua gruccia; e il gelido Ferraguzzo, che non cessa di ascendere verso il culmine della sua bramosia di potere. Prigioniero di riti decrepiti e di trame che falciano la sua livida Corte, Tito, che pure vorrebbe sfuggire a Gormenghast, dovrà combattere per salvare dal Male il cuore del castello – e trovare se stesso: perché forse un altrove non è nemmeno pensabile, e tutto conduce a Gormenghast. Nel secondo pannello della sua trilogia, Peake raggiunge il nucleo più oscuro di una narrazione che molti hanno paragonato, per vastità di respiro e potenza visionaria, al “Signore degli anelli”. In realtà egli va molto oltre, riuscendo a saldare in un travolgente flusso romanzesco il male della storia e il Male metafisico, e a far dono al lettore di una scrittura che fonde lo smalto imprevedibile dei colori alla precisione iperrealistica dei dettagli – quasi la ‘trascrittura’ dell’arte di un pittore fiammingo gettato dal caso nel cuore di un altro mondo, che non abbandonerà più la nostra memoria.

VOL. 3 – VIA DA GORMENGHAST

Quando, alla fine del secondo pannello della trilogia, il giovane Tito, signore di Gormenghast, trova la forza di strapparsi al suo reame, la cui bellezza si è ormai corrotta in cupa fatiscenza, le parole della madre – «Non esiste un altrove. Tutto conduce a Gormenghast» – sembrano richiudersi sulla sua fuga come una pietra tombale. Scoprirà che un altrove esiste, ma che è divorato non meno di Gormenghast dal Male: la città a cui approda è solcata dalle disumane meraviglie del controllo poliziesco – figure con l’elmetto che paiono scivolare sul terreno, sciami di velivoli senza pilota simili a equazioni di metallo, globi dalle viscere colorate quasi umane –, sottomessa a una scienza dispensatrice di morte. E nei cunicoli del Sottofiume vive una immane popolazione di reietti, fuggiaschi, falliti, mendicanti e cospiratori che non vedranno mai più la luce del sole. Scoprirà che al di là della sua nessun’altra realtà è per lui decifrabile, così come la sua è per gli altri inconcepibile: lontano da Gormenghast non c’è che l’ossessione del ricordo, e la follia. Dovrà, sorretto dall’aiuto di pochi – il gigantesco Musotorto, l’amorosa Giuna, i transfughi del Sottofiume Cancrello, Frombolo e Sbrago –, combattere, sfuggire a insidie, sottrarsi a ogni vincolo d’amore, amicizia e riconoscenza per conquistare l’unica verità che conti: «Era come una scheggia di pietra, ma dov’era la montagna dalla quale si era staccata?». Anche in questo terzo e ultimo volume la vastità di respiro e la potenza visionaria di cui Peake si mostra capace lasciano ammirati, dando ragione di ciò che asseriva C.S. Lewis: «I libri di Peake sono vere e proprie aggiunte alla vita; come certi sogni rari, ci offrono sensazioni che non abbiamo mai sperimentato, ampliando in noi la gamma delle esperienze possibili».

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